Il bello degli animali è che ti vogliono bene senza chiedere niente
Orgia
7 Febbraio 2019
Medea Black
7 Febbraio 2019

di Rodrigo Garcia

Il bello degli animali è che ti vogliono bene senza chiedere niente

traduzione
Daniele Aluigi

regia
Massimo Di Michele

con
Piergiuseppe Di Tanno, Cristina Gardumi, Roberto Marinelli, Francesco Villano

costumi
Giuseppe Testa

luci
Alessandro Carletti

coreografie
Tiziano Di Muzio

consulenza musicale
Enzo Pucci

assistenza alla regia
Monica Belardinelli

locandina
Cristina Gardumi

foto di scena
Stefania Bonatelli

una produzione
Imargini

Note di regia

"Quando il dolore ti spezza significa che il dolore è sul punto di morire."

Il bello degli animali è che ti vogliono bene senza chiedere niente ha tutte le caratteristiche provocatorie e di denuncia del degrado intellettuale ed emotivo che descrive i nostri tempi, che hanno reso il suo autore una delle voci che oggi accusano con più ferocia e spietatezza. Ovviamente anche il linguaggio registico di Rodrigo Garcìa aderisce perfettamente ai toni sempre in apparenza monologanti dei suoi personaggi, portando solitamente gli attori a dire il testo, nel modo più naturale possibile e bandendo ogni facile fuga nel patetico e nell'emotività, direttamente in faccia al pubblico. Alla fatidica prima lettura, tutto questo si palesa con una sicurezza lampante. è solo dopo che inizia a sorgere il dubbio: se non fosse tutto qui? Al di là del naturalismo, delle bestemmie e degli intercalari del linguaggio popolare, al di là delle invettive contro il consumismo e la politica corrotta e la sanità marcia, dell'apparente pour parler che riempie le pagine e il tempo del dialogo senza portarti da nessuna parte; se non fosse ciò che sembra?

I personaggi del testo originale sono tre, ma parlano come se avessero una bocca sola, come fossero un'unica persona e la sua memoria, in cui i diversi umori e pensieri instaurano un dialogo che porterà all'unità di essa e a riconoscersi. Il monologo finale è il luogo preciso in cui questa fusione si realizza. Come una necessità continuamente rimandata. Il viaggio che ha condotto a questo è stato inevitabile. Quando ti rendi conto di dove Garcìa è riuscito a portarti è troppo tardi: ti trovi già lì, in bilico sull'abisso che separa la vita dalla morte. La vita come malattia e sofferenza, la morte come liberazione definitiva e dolcissima. Stiamo parlando di eutanasia, ma fino alla fine non ce ne rendiamo conto.

Il contesto iniziale è quello di un luogo dove si aspetta. Può trattarsi della sala d'attesa di un medico specialista, o di un luogo più misterioso - la connotazione scenica è essenziale e non chiude possibili interpretazioni altre - anzi sprigiona letture personalissime che invitano chi guarda a essere coautore di ciò che osserva. è chiaro che c'è qualcuno o qualcosa che detta le regole, pian piano cresce il disagio e la certezza che non esiste una via di uscita possibile. A parte forse parlarsi. E infatti il fiume dei discorsi a tratti avvolge le quattro persone, e finisce per chiuderle in loro stesse, trasformandole in isole monologanti. Il bello del testo di Garcìa è che questo percorso umanissimo attraverso la società di oggi e le sue varie malattie, viene portato avanti in modo accuratamente chirurgico, sì, ma sempre ironico corrosivo e dissacrante.

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